Echinococcosi Parasite non merita un posto nella storia del cinema

A quando il Nobel della letteratura a Fabio Volo e il Pallone d’Oro a Francesco Magnanelli?

Se a “Parasite” – il nuovo fenomeno sudcoreano della cinematografia mondiale – viene concesso l’onore e l’onere di battere nella corsa agli Oscar film come “C’era una volta a Hollywood” e “Joker”…beh, allora è un po’ tutto valido.

Gli espertoni dell’Academy non sono nuovi a regalare Oscar, dal 2000 in avanti hanno premiato diverse opere anonime e/o fastidiose e/o sopravvalutate, da “Il ritorno del re” (saga Signore degli Anelli) a “Chicago”, da “The millionaire” a “Il discorso del re”, da “Il caso spotlight” a “Moonlight”, ma in questo caso parliamo di qualcosa di storico, del primo film non in lingua inglese capace di vincere l’Oscar maximo, oltre a quelli per miglior film straniero, regia e sceneggiatura originale.

Lo ammettiamo senza problemi: non è facile mantenere serenità di giudizio – soprattutto per noi populisti e pressappochisti della recensione – dopo la santificazione avvenuta tramite premi e giudizi orgasmici, che vanno dal “capolavoro” al “magistrale”. In un contesto del genere, logico per “Parasite” che le attese schizzino alle stelle, le stesse che potrebbero esserci per un match di wrestling tra Morgan e Bugo.

Disturba, infastidisce, gioca col battito cardiaco dello spettatore  – visto che evidentemente non siamo stati in grado di apprezzarlo fino in fondo, stiamo riportando un po’ di sentenze santificatrici lette in rete – spiazza, è uno spaccato sociologico con tensioni thriller e momenti horror. Addirittura? Stiamo parlando dello stesso film?

L’avessimo visto per caso, senza mai averlo sentito nemmeno nominare, forse avremmo gridato al miracolo. Forse. Anzi no, niente forse. Ma quale miracolo.

Parasite è ben diretto e fotografato, ha un’ambientazione affascinante da un lato e claustrofobica dall’altro, picchia sulle differenze di classe; ma non va oltre il “curioso e ben realizzato”. Fine. Il resto è esagerazione. Molto più interessante la prima parte con truffa da commedia all’italiana in bianco e nero, quando gira tutto bene agli antieroi; per nulla entusiasmante la seconda parte, che oltre a essere prevedibile nel contenuto e meno nella forma, stacca i piedi da terra (e via con le interpretazioni socio-filo-psicologiche entusiastiche di chi ne capisce a pacchi), disegnando una virata tarantiniana che onestamente toglie, più che aggiungere.

“Se non hai un piano, nulla può andare storto”, filosofeggia a un certo punto un perdente destinato a rimanere tale. Nemmeno noi abbiamo un piano quando guardiamo un film, va da sé che pochissimo ci interessa delle (presunte) sottotracce, dei (presunti) messaggi reconditi, dei (presunti) linguaggi metaforici e bla bla bla.

Il punto è un altro: “Parasite” merita di scrivere un capitolo nella storia del cinema? No. Decisamente no.

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